domenica 26 dicembre 2021

alla faccia di Vivaldi

 


Forte della sua doppia expertise di direttore d’orchestra e pittore dilettante, il buon F.M. Sardelli si addentra in un excursus storico-artistico-musicale mettendo in rassegna dal punto di vista tecnico e filologico le (poche) testimonianze visive sopravvissute delle fattezze presunte del Vivaldi, sostanzialmente portando conferme alle ipotesi che ritengono attendibili il famoso ritratto di Bologna databile a inizio ’700, l’incisione di La Cave del 1725 e tangenzialmente — unica a non avere bisogno di nessun accredito perché certamente veritiera — la caricatura del 1723 di Leone Ghezzi. Fondamentalmente, secondo il Sardelli l’attendibilità andrebbe cercata a ritroso, a partire dalla brutta incisione che nel 1725 accompagnava l’edizione a stampa dell’opera Ottava, pubblicata ad Amsterdam: per quanto scadente, quell’immagine mostra un compositore con la medesima scollatura della camicia aperta sul petto (dovuta probabilmente alla malattia, “strettezza di petto”, che attanagliava sin da piccolo il Nostro), un particolare considerato del tutto eccezionale per quell’epoca e quel contesto (in realtà questo è un punto debole, perché gli esempi sono numerosi, e la scollatura potrebbe essere una semplice coincidenza, ndr), e che — pur nella dissimiglianza dei volti, dovuta ai molti interscambi necessari per passare da un originale disegnato o dipinto ormai perduto ad una incisione opera di un artigiano alle prime armi, residente per di piú a oltre mille chilometri di distanza dal suo modello — metterebbe inequivocabilmente in relazione le due raffigurazioni come autosostenitrici l’una dell’altra veridicità. Comunque sia, il fatto che nell’incisione — piú tarda — Vivaldi appaia senza piú il violino si spiega con la ragione che con l’avanzare della sua carriera il compositore tendeva a presentarsi prima di tutto come autore tout-court, e non piú come violinista-compositore, condizione che risultava ormai squalificante. La chicca di questo libro, comunque la si pensi sul resto, è quella riprodotta in copertina ed è piú suggestiva e convincente: nella Chiesa della Pietà a Venezia — che non è piú quella in cui suonavano Vivaldi e le sue allieve, ma venne costruita piú ampia nel decennio successivo alla sua morte, al fianco di quella originaria non piú esistente — tra gli affreschi del Tiepolo che decorano la vòlta, figura la testa di un personaggio dai capelli rossi (Vivaldi era appunto soprannominato il “prete rosso”) che fa capolino alle spalle di un angelo violinista, e che rappresenta probabilmente un cameo in omaggio al Maestro da poco scomparso che per un lasso di tempo cosí lungo aveva prestato il suo talento alla formazione artistica della scuola e alla vita musicale veneziana in generale.

Sellerio, 2021, 290 pagg. illustrate, 24 euri

domenica 7 novembre 2021

realismo statico

 


MILANO – Palazzo Reale: “Realismo Magico. Uno stile italiano”. Quando le avanguardie di inizio Novecento si fecero un po’ stanche, particolarmente dopo l’approdo all’astrattismo, ci fu per reazione — da parte di numerosi artisti — un ritorno all’ordine e alla buona pittura figurativa. Questo accadde soprattutto in Italia, dove la prossimità dello stile classico era piú presente che altrove, ma anche in tutta Europa in generale. Il quadro iniziale di questa “nuova” tendenza, nata attorno a circoli artistici quali “Novecento” e riviste d’arte (“Valori plastici”), era piuttosto confuso, tanto che uno dei critici che per primi riconobbero questa corrente, metteva sotto il titolo di Realismo Magico opere che successivamente si sarebbero precisate meglio con altre etichette (metafisica, nuova oggettività, etc.). A posteriori possiamo dire che le opere che si fanno ricadere in questa definizione si collocano a metà strada tra lo spiazzante para-simbolismo della Metafisica e il realismo piú verace della Nuova Oggettività teutonica; in esse, la statica maestosità delle figure data dall’ispirazione rinascimentale congela i personaggi in una sorta di realtà irreale, che allude a qualcosa che va oltre, ma senza esplicitarla attraverso simboli o allegorie, tutt’al piú attingendo ad una certa naïveté che alcuni fanno risalire alla poetica di Henry Rousseau il doganiere. Talora si ha l’impressione di un certo estetismo furbo, fine a se stesso, confermato per esempio da Casorati che nella sua “Conversazione platonica” affiancava una signora nuda ad un uomo in cappotto, ma confessando successivamente non trattarsi di una composizione pensata con intenzioni allusive particolari, essendo invece frutto di un evento accidentale (un amico entrato casualmente nel suo studio mentre stava dipingendo la modella).

Cagnaccio di San Pietro, “Dopo l’orgia”, 1928, olio su tela, collezione privata

sabato 30 ottobre 2021

giallo è il colore dell'Eni

 


Il colore giallo che fa da sfondo alla copertina del “Futuro dell’energia”, libretto allegato a Panorama di qualche settimana fa, si addice molto alla sensazione che si tratti di una operazione promozionale dell’Ente Nazionale Idrocarburi. In ognuno dei capitoli che descrivono i temi della transizione energetica verso la riduzione dei gas serra — uno degli obiettivi del PNRR che tanti danari sta muovendo e che desta l’interesse degli operatori del settore — in ogni capitolo, dicevamo, si precisa che l’Eni sta svolgendo delle ricerche in quello specifico settore, anche in quelli attualmente vietati in Italia, quali l’energia nucleare (fissione e fusione), che vedono quindi l’azienda nazionale operare presso mercati esteri nei quali è consentito. Mettendo da parte le illazioni da persuasione occulta, è interessante considerare che alcune delle applicazioni tecnologiche attualmente in fase di sviluppo per la riduzione dell’anidride carbonica e dell’inquinamento — quali l’auto elettrica o gli stessi generatori eolici — risalgono in realtà agli albori dell’attività umana (ritroviamo addirittura la leggendaria invenzione di Archimede per concentrare i raggi solari), e furono messe da parte a causa della convenienza economica nello sfruttare l’energia derivante dal carbone e dal petrolio, molto piú efficiente nei risultati ma enormemente piú inquinante.

sabato 23 ottobre 2021

cuncurèss

 


Se non si fosse data l’occasione di celebrare il settecentesimo anniversario della morte di Rainaldo da Concorezzo — vescovo di Ravenna ai tempi di Dante — pochi avrebbero saputo che fin dagli anni Cinquanta furono fabbricate delle copie parziali dei famosi mosaici ravennati, che da allora hanno girato il mondo allo scopo di promuovere turisticamente la regione emiliana, approdando infine nel paesotto brianzolo che temporaneamente li sta ospitando nella sede della mostra celebrativa di cui sopra. Alla faccia di tutte le realtà virtuali, la mobilitazione fisica di tot tonnellate di mosaici (copie molto fedeli agli originali) permette ai visitatori un’esperienza cosí ravvicinata che neanche la visita in loco permetterebbe loro. Inoltre, l’importanza di queste opere — per via della loro antichità risalente ai primi secoli dell’era cristiana, e la loro collocazione spaziale e culturale tra l’impero d’occidente e quello d’oriente — sta nell’essere una chiave d’interpretazione per l’iconografia sacra dei secoli successivi, e una testimonianza della divisione teologica che al tempo sussisteva tra ariani e ortodossi.

domenica 10 ottobre 2021

corto reloaded

 

“Oceano nero”, ovvero la giovinezza di Corto Maltese, scaturisce giustamente dalla Francia — o meglio, editorialmente dalla Svizzera ma ad opera di autori francesi — dove l’eroe di Hugo Pratt era nato originariamente con “La ballata del mare salato”, che viene difatti evocata nel titolo. Gli ingredienti principali li ritroviamo tutti: Rasputin, l’ambientazione esotica, l’esoterismo, i personaggi molto caratterizzati, una laconica e distaccata crudeltà sentimentale, etc. — ma sono calati in una realtà parallela rispetto all’età presunta corrispondente di Corto-giovane (un po’ come avviene per tutti i reload dei supereroi Marvel). Un vero e proprio colpo da maestro è la rievocazione dell’attacco alle torri gemelle, che fissa un riferimento temporale nel quale la storia è collocata, ma che è utilizzato come semplice oggetto narrativo, a mo’ di tigre di salgari, solo en passant per risolvere una scena d’azione. I collaudati disegni “liquidi” di Bastien Vivès ricordano lo stile sintetico dell’ultimo Pratt — che vedeva il fumetto come letteratura disegnata, ma disegnata sempre meno, e sempre piú pensata — alle volte un po’ sciatti, ma comunque funzionali ed esteticamente interessanti e assai personali.

Cong edizioni, 168 pagg. in bianco e nero, 19,50 euri

sabato 25 settembre 2021

non solo Norman

 


Sulla scorta dell’Arte di vedere di Aldous Huxley, uscito negli anni Quaranta, anche tale dottor Markert, diversi decenni dopo, si incarica di divulgare i metodi naturalistico-filosofici del dottor William H. Bates (1860-1931) per il recupero della vista. Rispetto al suo precedente, che si concentrava soprattutto sui controversi aspetti percettivi — al limite della teosofia — del metodo del capostipite, Markert amplia il campo di applicazione, e da buon medico di medicina olistica si occupa anche della salute generale dell’organismo, del quale il sistema visivo è parte («estensione del cervello»). In verità il libro in questione è eccessivamente sintetico, nonché ormai datato, tanto da lasciare scoperto tutto il ramo delle maculopatie, che paiono essere la prima causa di cecità, parziale o totale, riconosciuta ai giorni nostri. Tuttavia ha il merito di precisare meglio il meccanismo peggiorativo che con l’adozione degli occhiali correttivi porta alla progressiva dipendenza da lenti sempre piú forti, che — riducendo il campo visivo e dunque la mobilità, ed inibendo il fisiologico accomodamento naturale — rendono l’occhio sempre piú pigro e piú debole.

RED Edizioni, 150 pagg., euri 12,30 circa

giovedì 12 agosto 2021

summa theologica

 


Nel librone del buon Egidio Pozzi, uscito nell’ormai lontano 2007, non troviamo novità storiografiche, né alcuna originalità di giudizio, o alcuna rilettura personale della vita e delle opere di Antonio Vivaldi. Troviamo invece il piú organico riassunto di gran parte dei piú autorevoli studi fino ad allora pubblicati al riguardo (tra i piú noti: Kolneder, Fertonani, Talbot, fino a FMSardelli). Le vicende biografiche e lo stile musicale del Prete Rosso vengono illustrati approfonditamente, con ampie rassegne su aspetti particolari, quali la luce gettata sui poco noti compositori veneziani dell’epoca, l’andirivieni tra l’Ospedale della Pietà e i vari impegni operistici in giro per il centro-nord Italia, il “carteggio ferrarese” che illumina sull’ostracismo clericale ricevuto da parte della città emiliana per via della sua condotta mondana, e tante altre cose, tra le quali un buon centinaio di pagine dedicate all’analisi stilistica di alcuni concerti, che ovviamente data la smisurata produzione vivaldiana non esauriscono alcunché ma suggeriscono però alcune possibili modalità attraverso le quali rapportarsi alla sua musica.

L’Epos editore, ca. 780 pagine, 48 euri (che nel frattempo, se il libro fosse reperibile, dovrebbero essere attualizzati in una sessantina, ma li vale tutti)

giovedì 5 agosto 2021

finale col botto

 



MILANO - Palais Royal. Simpatica esposizione che esemplifica la presenza femminile nella storia dell’arte italiana riguardo i secoli XVI e XVII. Oltre alle solite note, troviamo una quantità di pittrici minori (piú alcune incisore, o incisrici?, e un’architetta), delle quali effettivamente la rilevanza artistica è dubbia, data la fatica nel ritrovare opere da esporre in mostra (di un paio di esse non è stato dato di reperirne alcuna). Le artiste di questi secoli facevano capo essenzialmente a due categorie: rampolle di buona famiglia che venivano istruite alla musica e alle arti (Sofonisba Anguissola e Lavinia Fontana, per esempio), oppure figlie d’arte che andavano a bottega dal padre (Elisabetta Sirani, Artemisia Gentileschi, tra le altre). Potevano operare, quindi, soltanto in contesti limitati e protetti, al contrario dei maschi che venivano mandati a bottega dai maestri piú varii. La qualità di molte opere è indiscutibile, e la limitata rilevanza che spesso hanno assunto in quanto artiste è data dalla limitatezza della loro produzione, ché le figlie di papà non poterono ampliare per mancanza di tempo, al contrario delle figlie d’arte. Nella mostra si vedono opere note e meno note, ma quella che colpisce è nel finale, e cioè una Maddalena recentemente attribuita alla Gentileschi, proveniente da una collezione di Beirut, piuttosto danneggiata dalla gigantesca esplosione del deposito di nitrato di ammonio che un anno fa colpí il porto della capitale libanese.

sabato 31 luglio 2021

ambasciatrice porta pena

 



Forse per noia, o forse per inconscia reazione alla nuova rigidità morale degli anni Trenta teutonici, accade che la moglie insoddisfatta di un alto papavero del Reich — sobillata in questo senso dal proprio licenzioso professore di letteratura — si senta attratta irresistibilmente dalla nipponica compagna del corso di pittura a cui si era iscritta per rianimare i propri interessi. La giappo è la figlia dell’ambasciatore, perciò la relazione sconveniente può avanzare proprio grazie alla protezione del circuito di sicurezza al quale ella è sottoposta. In realtà, la ragazza è attratta dalla qualunque, tanto che a un certo punto la relazione proibita diventa un triangolo, che acquisisce addirittura il marito della fedifraga — anche se la circostanza è nel film poco elaborata narrativamente, tanto da risultare troppo repentina e poco credibile —. L’attitudine multi-direzionale, che pone la giapponese cinicamente al vertice di potere di questa triangolazione, schiavizzandone intellettualmente le altre due parti, non comporta alcun eventuale distacco sentimentale, tanto che la fine di tutto verrà determinata proprio da una specie di harakiri collettivo, per sua volontà. Il tema che sta sullo sfondo è l’irriducibilità del sentimento umano alle regole morali ufficiali.

1985, regia di Liliana Cavani, sceneggiatura di L. Cavani e Roberta Mazzoni (tratta da “La croce buddista” di Junichiro Tanizaki), con Gudrun Landgrebe, Kevin McNally, Mio Takaki

domenica 18 luglio 2021

vedi un po'

 

Chissà: forse è proprio a causa dei suoi disturbi alla vista che l’autore del “Mondo nuovo” è diventato uno degli scrittori piú visionari, addirittura anticipando di una decina d’anni la distopia orwelliana. Nel 1942 pubblicò questa specie di manuale — ispirato alle idee del dr Bates — nel quale suggeriva una serie di esercizi per migliorare la condizione di chi soffrisse di miopia, ipermetropia, etc. Alcuni di questi esercizi, come quello che consiglia di fissare il sole ad occhi aperti, appaiono oggi altamente sconsigliabili; altri — come quello di concentrarsi sullo spazio bianco delle lettere per affinare la percezione del nero — sembrano abbastanza inutili. Piú interessanti, invece, quelli che invitano a risvegliare l’occhio sottoponendolo a differenti focalizzazioni, da vicino e da lontano, per recuperarne l’atrofia visiva. Il fatto sconcertante, comunque, è che già all’epoca qualcuno aveva capito che curare la vista con l’uso degli occhiali equivaleva a curare i sintomi, e non le cause, della cattiva visione, contribuendo perdipiú in tal modo alla progressiva degenerazione dei difetti che ci si prometteva di correggere (com’era ovvio, del resto, ma la lobby dei fabbricanti di occhiali l’ha avuta vinta).

Adelphi, Piccola Biblioteca n. 231, pagg. 220

mercoledì 30 giugno 2021

più spietato che bastardo

 


Una delle tante pellicole che negli anni ’60 andavano a rimorchio del genere western, e nella fattispecie dell’originale omonimo di Sergio Corbucci. In questa circostanza il Django impersona un soldato sudista, creduto morto, che torna per vendicarsi dei suoi ex ufficiali che tradirono l’intero battaglione (non è dato sapere perché). Particolarità: tutte le volte che compare il personaggio di Rada Rassimova, l’unica presenza femminile del film, parte in automatico un tema musicale suadente, che suona come un richiamo parossistico alle soluzioni omologhe leonian-morriconiane; peccato che alla seconda volta già venga da ridere. Altro elemento interessante è il marito pazzo di quest’ultima che, congiuntamente a qualche scena di ammazzamento splatter, denota la contaminazione tra due generi, ovvero il western e il nascente horror (lo stesso Dario Argento, peraltro, debuttò come aiuto regista o sceneggiatore in qualche film di Leone).

1969, scritto da Sergio Garrone ed Antonio De Teffé, regia di Sergio Garrone, con Anthony Steffen, Rada Rassimov e altri.

domenica 30 maggio 2021

non solo veneri di milo

 

Il buon Tito Faraci, resosi probabilmente conto che la collana Comics della Feltrinelli — da lui diretta ormai da vari anni — non aveva ancora in catalogo un titolo decente, deve aver deciso di scomodare il Manara, che effettivamente era sprovvisto di (auto)biografia, per farsi raccontare la sua carriera. Difatti, l’unico ad aver preso in mano la penna per scrivere questo libro deve essere stato il Faraci medesimo, che ha sbobinato una serie di telefonate intercorse durante il lock-down o giú di lí. La parte piú interessante è quella precedente la consacrazione dell’autore, avvenuta a fine anni Settanta con la pubblicazione francese delle avventure di Giuseppe Bergman, dove ci vengono narrate le origini familiari, la formazione, l’approccio al fumetto, la (stravagante) abitudine di viaggiare per un certo periodo col camper — durante tutto l’anno — cosicché ne deriva che molte sue storie sono nate e cresciute “in vacanza”. Piuttosto sostanzioso anche il ricordo di due grandi con i quali il Manara ha collaborato, ovvero Hugo Pratt e Fellini. Via via il racconto si fa piú frammentario, e il resoconto delle ulteriori collaborazioni professionali (Jodorowsky, Celentano, Valentino Rossi, etc.) è limitato a qualche paginetta di prammatica. Il limite del libro è una certa superficialità — dovuta alle modalità di intervista dissimulata con le quali è stato composto, tutto sommato risultanti in una certa facilità di lettura — che restituisce un’immagine un po’ da cartolina del Milo: infatti nel corso degli anni, in varie pagine della stampa, abbiamo letto aneddoti e considerazioni molto interessanti, ma magari sconvenienti da riportare in questa che si può considerare la prima, e forse unica, biografia autorizzata.

Feltrinelli, 224 pagg. a colori, 22 euri

venerdì 30 aprile 2021

instant-checco

 


Chissà se Checco per il suo ultimo film si è ispirato a un instant movie come “Occhio alla Perestroika" di Jerry Calà, oppure è risalito direttamente ai referenti di inizio Novecento, quali Chaplin, Laurel&Hardy, Totò, etc. D’altra parte, la matrice sociale è stata d’uso nei film comici fin dagli esordi, ma è un’abitudine che ai giorni nostri si è fatta piú latitante, onde per cui è una vera sorpresa ritrovarsi nel mezzo di un’ambientazione tanto scottante quale quella dei migranti africani, quando invece ci si sarebbe aspettati qualcosa di piú convenzionale. (Notiamo che Virzí ha partecipato alla scrittura, per cui forse si può dedurre che ci deve essere stata una qualche influenza in tal senso da parte sua, visto che è la prima volta che lo ritroviamo nei titoli di testa dei films del comico pugliese.) Naturalmente tutto è semplificato e all’acqua di rose, ma stupisce, e fa ridere.

2020, regia di Luca Medici, soggetto e sceneggiatura di Luca Medici & Paolo Virzí, con Checco Zalone e altri

lunedì 5 aprile 2021

ohi Mari

 


Il Mari Enzo si guadagnò un posto nel pantheon personale di chi scrive già attorno al 1985, allorché durante un ciclo di conferenze pubbliche proposte dall’Istituto d’Arte di Cantú — aventi come protagonisti i maggiori designer del tempo (oltre a lui, Munari, Castiglioni, etc.) — esordí con una frase del tipo «se volete diventare dei designer, le conferenze non servono a niente, ma bisogna studiare sui libri». Questo suo carattere fatto di originalità ed intransigenza lo ritroviamo nell’autobiografia di cui sopra — pubblicata una decina d’anni or sono dalla Mondadori — dove comincia a raccontarsi a partire dalla povertà originaria della sua famiglia, ed alla serie di diversi lavori artigianali che, uniti ad un’indole artistica, nel contesto di ricostruzione del dopoguerra milanese lo portarono ad avvicinarsi all’ideazione di oggettistica industriale, trovando sovente approdo presso imprenditori illuminati che osavano rischiare su progetti fuori dal comune. La sua formazione autodidatta, basata fondamentalmente sull’essenzialità della funzione pratica dell’oggetto invece che sul suo aspetto estetico, era arricchita da una ricerca personale nei campi della filosofia, della pedagogia, etc. che, in ragione di detto percorso condotto fuori da tutti gli schemi, hanno fatto del Mari un unicum, a tratti scontroso verso il sistema costituito (in riferimento al design, ma non solo) che negli ultimi anni assieme ad un po’ di arteriosclerosi lo facevano sembrare un vecchio trombone, dal quale però si potevano sempre trarre delle scintille illuminanti.

venerdì 19 febbraio 2021

ciwati production

 

Piuttosto scarso come disegnatore, peggio ancora come vignettista o ideatore di storie a fumetti, il buon Makkox da qualche anno in qua si è fatto apprezzare in tv, per la sua vena comica istrionica — che riscatta la povertà di quella disegnata — a fianco di Zoro & company. Assume perciò senso la lettura della sua autobiografia, quantomeno per capire da dove è saltato fuori, uno cosí, a quest’età (come gli chiese Giuliano Ferrara). Di umili origini nel basso Lazio, ha svolto svariati lavori di fatica prima di approdare al disegno e alla grafica. A seguito di una certa notorietà acquisita grazie alla pubblicazione su web dei suoi disegni, viene chiamato a collaborare come autore di Scherzi a Parte, e poi persino da Beppe Grillo quando questi per un breve periodo tornò al suo mestiere di comico. Dopo queste esperienze, entrambe fallimentari, finalmente trova la strada giusta a teatro con la Dandini, dove inizia a prodursi coi suoi disegni alla tavoletta grafica proiettati su grande schermo, come fa tutt’ora. Biografia a parte, il lato interessante del libro è il corollario di considerazioni schiette e disincantate, espresse a cuore aperto come capita raramente di leggere, sui vari temi che la vita e il mestiere gli hanno proposto.

People editore, duecento e rotte pagine, 19,50 euri

domenica 7 febbraio 2021

another rock'n'roll swindle

 


Se l’opera terza del Muccino ha ottenuto tutto il successo che sappiamo è in gran parte merito del titolo della bella canzone di Carmen Consoli — costruita su un tema di Paolo Buonvino — che ha ribattezzato a posteriori un film che, piú prosaicamente, avrebbe dovuto chiamarsi invece “Pensieri poco carini”. Di ‘ultimi baci’, infatti, non troviamo nessuna traccia, se non un fugace bacio sulla fronte della giovine Martina Stella (e non della Giovanna Mezzodí come travisa il manifesto). La storia — di stampo generazionale e dalla trama piuttosto densa e sceneggiata molto accuratamente — è quella di un gruppo di giovani al giro di boa dei trent’anni, e le relative decisioni da prendere riguardo al futuro. La linea è quella corale e comica, anche se virata piú sul sentimentale, di due illustri precedenti quali “Ovosodo” di Virzí (dal quale sono stati tratti alcuni attori) e “I laureati” di Pieraccioni, con l’aggiunta della concitazione tipica del Muccino e di una certa verbosità che non sempre va a segno. Dato il tema trattato, c’era il rischio di terminare il film suggerendo allo spettatore delle conclusioni moralistiche, le quali vengono in parte neutralizzate dalla trovata dell’autore di distribuire la propria contraddittoria personalità — in una storia dall’ispirazione autobiografica — ad ognuno dei ruoli interpretati dal cast abbastanza stellare (soprattutto visto a posteriori) che è stato ingaggiato, cosicché la relativa rassegnazione dettata dal buonsenso, da una parte, viene bilanciata, dall’altra, da una certa voglia di libertà.

p.s.: a livello di attori spiccano Claudio Santamaria e, nella sua breve parte, Sergio Castellitto, entrambi due spanne sopra tutti; in quanto a brocchi, invece, si distinguono Pasotti, la Sandrelli e l’Accorsi medesimo.

2001, scritto e diretto da Gabriele Muccino, musiche di Paolo Buonvino, con Stefano Accorsi, Giovanna Mezzodí, Stefania Sandrelli, Favino, Santamaria, Pasotti, eccetera eccetera

venerdì 22 gennaio 2021

te l'avevo detto, figliolo

 

Libercolo che mette nero su bianco le voci radiofoniche trasmesse durante una o due puntate di “Uomini e Profeti” nelle quali il compianto Paolo De Benedetti — intervistato colloquialmente dalla Gabry Caramore — ci illuminava sul piccolo libro ebraico dei Pirqè Avot, che raccoglie i detti sapienziali che la tradizione attribuisce a vari maestri vissuti nei secoli a cavallo dell’era volgare. Pronunciati non da sacerdoti ma da rabbini che avevano come prima occupazione un lavoro normale, per la maggior parte si tratta di motti dalla spiegazione abbastanza semplice — come quelli del libro biblico dei Proverbi — ma a volte si fanno enigmatici, controintuitivi o carichi di quel fuoco tipico del misticismo islamico o cristiano medievale.

p.s.: scopriamo incidentalmente che l’idea della resurrezione dei corpi non era farina del sacco di Gesú: era infatti moneta comune presso i Farisei, il famigerato gruppo politico-religioso ebraico, che deve la sua pessima fama a posteriori per il fatto che i vangeli furono scritti molto tempo dopo gli eventi narrati: era perciò mutato il contesto rispetto a cento-duecento anni prima.

Morcelliana, 2011, 84 pagg., 10 euri


“Riscaldati pure al fuoco dei sapienti ma stai attento alla loro brace per non scottarti. Poiché il loro morso è il morso di una volpe, la loro puntura è la puntura di uno scorpione, il loro sibilo è il sibilo di un serpente e tutte le loro parole sono come carboni ardenti.”

“Stai attento a un precetto lieve come a uno grave, perché tu non sai quale sarà la ricompensa dei precetti.”

“Bello è lo studio della Torà insieme a un’occupazione mondana, poiché la fatica di ambedue fa dimenticare il peccato, ma ogni studio della Torà che non sia accompagnato da un lavoro, va a finire che vien meno e trascina a peccato.”

“Non spetta a te portare a termine il lavoro, ma non sei nemmeno libero di sottrartene.”

mercoledì 6 gennaio 2021

un americano a roma

 


In una scena di “Tommaso”, il protagonista — alter ego di Abel Ferrara — afferma di avere in mente un remake della “Dolce vita”; in verità già quello che stiamo vedendo è una specie di libera reinterpretazione di “Otto e mezzo”. Il tema centrale è infatti ancora una volta la crisi creativa ed esistenziale di un regista cinematografico ma, mentre Fellini ci proiettava in un contesto fantasioso e spettacolare — paradossalmente gravido di potenziali idee per numerosi altri film — in questo caso seguiamo Dafoe nelle situazioni piú ordinarie della vita quotidiana, tanto personali e vicine al vero da venirgli affiancate quali partners la vera moglie e figlioletta di Ferrara. Naturalmente, trattandosi delle circostanze di una personalità artistica, che cerca di ambientarsi in una città diversa dalla sua New York, e perdipiú in fase di disintossicazione da droga e alcool, le attività parallele si allargano in situazioni meno consuete, quali una sorta di teatro relazionale corporeo, il corso di lingue o la psicoterapia di gruppo, dove il nostro può sfoggiare sé stesso in occasioni piuttosto bukowskiane, diciamo.

2019, scritto e diretto da Abel Ferrara, con Willem Dafoe, Cristina Chiriac e Anna Ferrara