venerdì 27 dicembre 2019

Antigone '68


“I Cannibali” di Liliana Cavani è un adattamento dell’Antigone di Sofocle trasportata in pieno Sessantotto, che alla messa a tema del contrasto tra la legge naturale (o degli dèi) e quella dell’uomo (nòmos), e quindi del relativo diritto alla ribellione ad una normativa considerata ingiusta, univa la distopia di un futuro ipotetico ad una narrazione on-the-road — in questo senso per rispondere ad un’esigenza stilistica anti-borghese, che si adattava del resto perfettamente alla storia raccontata (un altro caso simile di ambientazione sulla strada, immediatamente successivo, è il piú celebre “Easy Rider”). I cadaveri dei giovani ribelli disseminati per le strade del centro di Milano — e i cui corpi le autorità proibiscono di seppellire — hanno suggerito a Enrico Deaglio, pensiamo non a torto, una macabra suggestione anticipativa della strage di Piazza Fontana che si sarebbe avverata di lí a pochi mesi.

Questo film — ai giorni nostri ormai dimenticato — potrebbe apparirci come un episodio di poca rilevanza nella storia culturale italiana, ma la dimostrazione del suo impatto sul pubblico dell’epoca è dimostrata dal titolo stesso, per esempio, che è stato preso a prestito nei decennii successivi da un almeno paio di manifestazioni della contro-cultura giovanile, ovvero la rivista di fumetti underground di Pazienza Tamburini etc. di fine anni Settanta, e il filone letterario dei primi Novanta cui facevano capo Ammaniti, Aldo Nove e altri.

1968, regia di Liliana Cavani, soggetto e sceneggiatura di L. Cavani, Italo Moscati e Fabrizio Onofri, musiche di Ennio Morricone e Gino Paoli, con Britt Ekland, Pierre Clementi, Tomas Milian (Pietro Valpreda tra le comparse)

giovedì 28 novembre 2019

the elevator


Durante una nottata piovosa, gli ascensori di un palazzo situato in una non precisata località olandese assumono vita propria, complice un fulmine che fa da catalizzatore per una malvagia reazione chimico-elettronica tra i circuiti integrati del sistema ed una misteriosa sostanza gelatinosa. La nuova natura autonoma degli ascensori, superfluo specificarlo, è vòlta ad assassinare nei modi piú truci i malcapitati passeggeri delle cabine. In questa sua opera prima, Dick Maas manifesta il suo debito verso David Cronenberg, e i relativi films di pochi anni precedenti questo, che abbinavano il soggetto horror al tema tecnologico (la tv per Cronenberg, i computer nel caso nostro). Lo stile è molto spartano, con dialoghi essenziali — tendenti al catatonico, anche per l’insipienza della gran parte degli attori — e lo spazio narrativo è lasciato prevalentemente alla suspence e alla fantasia degli ammazzamenti; il tutto risulta oggi invecchiato malamente, proprio come “Videodrome” e “Scanner”, e come questi ha una certa aria da fumetto, tanto che pensiamo non sia una coincidenza che ricordi molto la prima fase del Dylan Dog di Tiziano Sclavi, che debuttò pochi anni dopo, il quale non ha mai fatto mistero di ispirarsi al cinema horror di serie B o C per le sue storie (e forse non è del tutto casuale che il protagonista somigli fisicamente proprio all’indagatore dell’incubo).

1983, scritto diretto e musicato da Dick Maas, con vari attori nederlandesi

domenica 27 ottobre 2019

operetta prima


“La cambiale di matrimonio”, la prima opera lirica rappresentata nel 1810 a Venezia da un Rossini ancora diciottenne, è una breve farsa che per la precisione andrebbe annoverata nella centenaria tradizione degli intermezzi napoletani (tra i quali ricordiamo quelli di Alessandro Scarlatti, Domenico Sarri o la celeberrima “Serva Padrona” di Pergolesi). Si trattava di opere molto brevi, che precorrono in ordine di tempo l’opera buffa, divise in uno o due atti, dal soggetto molto leggero, di solito amoroso, e che fungevano da intermezzo, appunto, all’interno delle rappresentazioni di opere serie, melodrammi solitamente di tenore storico. (p.s.: questa cosa che leggiamo spesso nei libri di musicologia ci lascia comunque perplessi, perché un’opera seria durava in media dalle due alle tre ore, e se vi aggiungiamo un’altra oretta di intermezzo fanno quattro ore di fila di musica, esclusi gli intervalli, ma evidentemente le abitudini musicali del pubblico di allora dovevano essere molto diverse da quello attuale). Un’ouverture divisa in due parti, nella quale spicca il corno come strumento solista — che allude alla predominante componente maschile della narrazione — ci introduce ad una storiella esile esile tal quale ce la si aspetta, musicata da un Rossini ancora accademico (lo capiamo, tra l’altro, dalla frequente variazione in terzine delle arie del soprano) ma che lascia già trasparire gli elementi di pazzia che seminerà anche in seguito (per esempio i duetti o terzetti che finiscono in uno stretto in cui ogni voce recita un testo diverso in sovrapposizione alle altre).

venerdì 27 settembre 2019

fumetto imperfetto


L’opera capitale di Igortuveri, una graphic novel che ci ha messo un quarto di secolo a completare il suo iter (da storia a puntate incompleta, a ridefinizione e completamento come libro a fumetti, e infine come film diretto da Igort medesimo con protagonista il famoso attore fratello del cantante degli Avion Travel). Una storia di camorra, tematica che l’autore poteva sentire familiare solo in quanto emigrato nipponico, espatriato per disegnarvi dei fantomatici fumetti di cui sempre parla ma che nessuno ha mai visto. Lo stile di disegno iniziale anni ’90, di stampo espressionista, si trasforma nella sua edizione definitiva in una quasi linea chiara alla giapponese (appunto), a servire una storiella di clan, famiglie mafiose, morti ammazzati, e tutto il companatico. Insomma, il fumetto è una roba abbastanza inutile (ci stava bene magari nella collana popolare Le Storie di Bonelli, senza fare tanta caciara) e il film ci riserviamo di giudicarlo una volta veduto, ma non ci aspettiamo granché, e dai trailer si preannuncia dal punto di vista fotografico e cinetico una via di mezzo tra lo stile di Tarantino e quello di Sorrentino.

lunedì 29 luglio 2019

falsi d'autore


Avevamo già avanzato qualche dubbio sulla lucidità epistemica del buon FMS qualche tempo fa quando, interloquendo con lui tramite un noto asocial network a proposito delle sonate a tre parti di Vivaldi, rimanemmo stupefatti constatando che il Nostro (si badi, in quanto revisore ufficiale del catalogo del compositore veneziano) annoverasse tra le sonate a tre anche quelli che, con tutta evidenza, non erano altro che reperti di concerti a due violini, mancanti totalmente della parte di basso, probabilmente mai ultimati e rimasti a livello di bozza. Non ci meraviglia quindi che l’ultima fatica creativa di Sardelli, sotto il titolo di Sonate à tre, nasconda in realtà un pout-purri formale e stilistico ben piú ampio degli anni Venti del Settecento ai quali ci vorrebbero ricondurre le note interne del disco Brilliant Classics in oggetto. O, quantomeno, seppure lo stile può essere effettivamente quello di un Vivaldi di quel periodo (un po’ troppo accademico però, a cui manca del tutto l’esuberanza che invece troviamo fin dalla sua Opera Prima, che era appunto una raccolta di sonate a tre), notiamo come il Sardelli abbia completamente travisato l’aspetto formale e strutturale di questo tipo di composizioni, tre delle quali sono inusualmente in soli tre tempi (la caratteristica sequenza di allegro-adagio-allegro, tipica però dei concerti). Le altre tre sonate sono effettivamente in quattro tempi, nello stile “da camera”, ovvero senza grande sfoggio del contrappunto, ma quello che manca quasi in toto alle sei composizioni del disco è la vera e propria natura della sonata a tre parti, ovvero il sostanziale equilibrio delle voci componenti il trittico. Qui invece ci pare, tranne in rari momenti (Sonata V), di trovarci spostati avanti nel tempo, quando già con Tartini la tipologia della sonata a piú parti era diventata un lontano ricordo di quella originaria, e il secondo violino, pur presente, non si sa bene che fargli fare, alle volte consistendo semplicemente in un controcanto, quando non una semplice eco, nascondendo quindi la loro vera natura di sonate per violino solo e basso continuo, quando addirittura non adottano il lessico di un vero e proprio concerto solistico (Sonata VI e terzo tempo della Sonata I).

p.s.: ci scuserà il Sardelli per la cattiveria ma si fa solo per vis polemica. Comunque il disco si fa ascoltare, e il gusto musicale, quantomeno, quello c’è senza dubbio.

sabato 20 luglio 2019

sbroccadoro


Simpatico libretto del buon Carlo Sbroccadoro, che si può dividere grosso modo in due parti: la prima parte tratta della specialità del Nostro, ovvero la musica contemporanea, e delle difficoltà che questa incontra nella programmazione musicale italiana, per pigrizia mentale degli operatori culturali e del pubblico e per conseguente sconvenienza economica. Data la expertise in materia, e dai nomi dei compositori forniti nel testo, il buon Sbroccadoro ci stimola all’approfondimento del tema, soprattutto alla luce della tesi opposta sostenuta da Sandrino Baricchio nel celebre “L’anima di Hegel e le mucche del Wiscounsin” (che, dobbiamo dire, ci convince maggiormente). La seconda parte del libro si concentra invece sul cambiamento delle modalità di fruizione della musica da parte del pubblico. La tesi sostenuta, abbastanza condivisibile, è che la frammentarietà dell’ascolto, causata dallo streaming digitale e dall’aumento delle distrazioni della vita quotidiana, determinano una perdita nella possibilità di comprensione di un discorso musicale (alla pari di un discorso letterario) di una certa complessità e che necessiti di svilupparsi in un arco di tempo superiore a quello che normalmente la gente è disposta a concedergli. Anche la sovrabbondanza di materiale musicale disponibile, grazie al digitale, può essere un fattore negativo, sia per il pubblico, che trova difficile concentrarsi su un artista o su un genere particolare, sia per i compositori musicali, per i quali la conoscenza eccessiva di tutto lo scibile che viene prodotto, può precludere o rendere molto complicato il determinarsi di una scuola, che consenta un’evoluzione coerente di un pensiero musicale, nel solco di una tradizione o di una linea coerente di sviluppo, causando uno spaesamento sia verso il pubblico che verso se stessi.

Einaudi, 96 pagg., 12 euri.

giovedì 27 giugno 2019

in crociera


Se è vero com’è vero (lo dice WPedia) che il buon DFWallace soffriva da anni di depressione, allora possiamo ipotizzare che il reportage crocieristico commissionatogli da una rivista americana — successivamente ampliato per il libro di cui sopra — ha contribuito senza dubbio a dargli il colpo di grazia che l’ha portato al suicidio un paio di lustri fa. L’assurdità di una tale esperienza, cosí meticolosamente descritta dall’autore, col vacanziero servito e riverito da personale anonimo e gentile, perché prezzolato, in una vacanza caraibica senza senso, in compagnia di viaggiatori altrettanto assurdi, non può che alienare qualsiasi individuo che sia sano di mente. Invero la narrazione non è cosí tragica, sebbene a volte affiori la depressione di cui sopra, ma è caratterizzata da una strana desolazione divertente, sempre distaccata, ma precisissima nel descrivere la futilità di ciò che accade. Una certa dose di simpatia può essere dovuta alla versione italiana tradotta da Francesco Piccolo, che deve aver desunto da qui lo stile ironico tipico dei suoi libri, o semplicemente già era nelle sue stesse corde. Abbastanza a sproposito potremmo aggiungere che, qualora l’acume eccezionale di Foster Wallace avesse trovato applicazione nei rispetti di tematiche meno aleatorie e idiosincratiche, forse ne avrebbe guadagnato in salute mentale. Ma ormai è un po’ tardi per i consigli (non richiesti tra l’altro).

1997, Minimum Fax, 150 pagg., 15 euri

giovedì 30 maggio 2019

acqua azzurra


Anche per Zagor è arrivato il momento di raschiare il fondo del barile, ovvero, non avendo (da tempo) molto piú da dire, si vanno a ripescare gli spazi lasciati deliberatamente vuoti tra le vignette storiche che narravano le origini del personaggio, e li si riempiono con un po’ di banalità, giusto per allungare il brodo. L’operazione è ormai rodata: ha incominciato la Marvel, che periodicamente ci riracconta la rava e la fava a proposito delle stenografie originarie dei suoi personaggi, e anche in casa Bonelli è già toccato a Tex l’onere di rivangare il suo passato da “fuorilegge”. Nella fattispecie zagoriana si va a recuperare un classico dei classici come Zagor racconta — nel quale scoprivamo con sconcerto che il babbo del Tarzan di Darkwood si macchiò in passato di una strage di pellirossa — per colmarne le lacune e svuotarle del tutto di poesia, aggiungendoci pure un po’ di splatter, sperando cosí di acchiappare un pubblico nuovo (ma quandomai, questa è roba solo per nostalgici).

64 pagine a colori, 3,90 euri

sabato 11 maggio 2019

neo classico


MILANO - Palazzo Reale: “Jean Auguste Dominique Ingres. La vita artistica al tempo dei Bonaparte”.

«C’è chi lo pronuncia Ingr, chi lo chiama Aengr, chi Ingré, altri lo chiamano Ingrès, ma la vera pronuncia del suo nome è Èngr». (Pasquale Zagaria, 1985 ca., non inteso come l’alter ego di Lino Banfi, ma come l’ex professore di storia dell’arte di chi scrive)

Sfogliando il materiale informativo di questa mostra — nel quale si anticipa che la maggior parte dei (pochi) quadri di Ingres presenti appartengono al museo di Montauban, la città natale del pittore — possiamo già presumere che un eventuale motivo di interesse per la visita andrà cercato altrimenti. È infatti risaputo che i musei delle città natíe degli artisti, specie se ospitati nelle loro case natali, contengono poco piú degli avanzi della loro produzione, essendosi generalmente la loro carriera sviluppata altrove. Difatti il sottotitolo ci indirizza alla relazione tra lo stile artistico applicato al momento storico e alla committenza, ovvero all’ascesa dell’impero napoleonico che, come tutti i totalitarismi, necessita di un linguaggio espressivo consolidato e di facile lettura per veicolare i propri messaggi, e in questo senso il Neoclassicismo riusciva benissimo alla bisogna, coniugando i fasti dell’antica Roma con quelli della moderna Francia bonapartista. Naturalmente una mutazione dello stile delle arti era intervenuta già da prima, seguendo la consueta logica che determina l’evoluzione stilistica in reazione allo stile in vigore in un determinato periodo. In questo caso ci si liberava dalle bizzarrie e dalla fatuità del barocco e del rococò, analogamente a quanto accadrà col ritorno all’ordine realistico novecentesco dopo le avanguardie di inizio del XX secolo, per intendersi. La mostra giustamente ci informa che il neoclassicismo conteneva già in nuce i germi del futuro Romanticismo, messi un po’ in sordina dalle necessità di servizio al Potere della committenza ma che, pure in Ingres, trapelano, assieme a contaminazioni tematiche ed iconografiche rivolte alla mitologia nordica, o alle scoperte archeologiche nelle campagne di scavi in Egitto, che rompono la monotonia della rievocazione puramente classica, che infatti troviamo un po’ noiosa negli esponenti minori al di qua delle Alpi, quali l’Appiani o altri ancora piú provincialisti.

Jean-Auguste-Dominique Ingres - Il sogno di Ossian (1813), olio su tela, 348 x 275 cm, Musée Ingres, Montauban

martedì 23 aprile 2019

before Bobby Solo


Dice WikiMinkia che “Domenica d’agosto” sarebbe stato responsabile della deviazione del neorealismo verso la commedia di costume. In effetti, per una buona parte iniziale sembra addirittura di trovarsi di fronte al capostipite dei film vacanzieri & cinepanettonici anni ’80 nei quali imperversavano i vari Jerry Calà, Massimo Boldi, etc. Senonché il realismo fa breccia, in maniera sottilmente inquietante, nella spiaggia minata (dalle bombe alleate inesplose) che costringe i due bagnanti ad un lungo giro nel bosco. Poi c’è il reduce dal fronte, socialmente disadattato come un Rambo ante-litteram, etc. Ma quello che fa appartenere al proprio tempo questa tutto sommato divertente pellicola è l’amarezza di fondo dei finali di ognuno degli episodi intersecati dei quali è composta, per i quali solo ad alcuni è concessa una lieve speranza per il futuro.

1950, regia di Luciano Emmer, soggetto di Sergio Amidei, sceneggiatura di Franco Brusati, Luciano Emmer, Giulio Macchi, Cesare Zavattini, musiche di Roman Vlad, interpretato da Franco Interlenghi, Ave Ninchi, Marcello Mastroianni, Emilio Cigoli ed altri attori ormai dimenticati

domenica 31 marzo 2019

Cavalcaselle


Milano, Palazzo Reale: “Antonello da Messina”. Di base, quella che è considerata l’opera omnia di Antonello da Messina è largamente foriera di problematicità anche agli occhi del semi-profano: una marea di opere dubbie, attribuite sulla base di azzardate congetture stilistiche e geoculturali, con un excursus formale che va dal bizzarro stile catalano-provenzale al piú classico italiano proto-rinascimentale, passando oltretutto per i fiamminghi. Decisamente si sente la necessità di una revisione razionale delle attribuzioni, anche per riconferire un po’ di serietà alla critica d’arte d’oggigiorno. La mostra in oggetto, quindi, presentando una piccola selezione delle opere del Nostro, e non delle migliori, non può che deludere il visitatore (e pensare che fino a pochi giorni dall’apertura era in forse anche la presenza dell’Annunciata). Ha poco senso, infatti, offrire una mostra del tipo one-man-show (come capita sovente, ultimamente) se già in partenza si è consapevoli di non poter presentare le greatest hits dell’artista: uno si chiede, ma come mai questo qui era cosí grande se quello che ci fate vedere è perlopiú robetta? Forse per la consapevolezza di tale handicap, alle opere di Antonello sono stati affiancati i taccuini con gli schizzi e gli appunti del Cavalcaselle, il primo storico dell’arte che nell’Ottocento si avventurò nella ricostruzione del catalogo del pittore siculo. Un commovente, ma magro, premio di consolazione.

Vergine annunciata (1476), olio su tavola, cm 45 x 35, Galleria Regionale della Sicilia, Palermo

venerdì 22 marzo 2019

opera prima


L’album d’esordio di Malika Ayane, pubblicato a fine 2008 con meritato successo per la Sugar di Caterina Caselli, è un prodotto abbastanza discontinuo ed eterogeneo. La metà delle canzoni sono in inglese, composizioni originali di tal Ferdinando Arnò (che pare sia una vecchia volpe della produzione musicale italiana) tra le quali figura anche l’allegrotta “Feeling better”, lanciata da uno spot pubblicitario televisivo. In questa sezione pseudo-anglofona, diciamo cosí, costruita un po’ a tavolino dai discografici, troviamo tanti riempitivi ma anche alcune tracce di discreto livello. La seconda parte invece è quella piú interessante perché delinea il percorso futuro della cantante dalla voce adenoidale, ed è costituita da canzoni d’autore, scritte per lei su misura da Giuliano Sangiorgi dei Negramaro, da Pacifico (quest’ultimo seguiterà anche nei dischi successivi, fino ad oggi, a collaborare felicemente con la cantante di origine semi-marocchina) e, udite udite, perfino da Paolo Conte (“Fandango”, di bell’effetto nella concezione, ma che avrebbe sofferto meno con immagini poetiche non cosí stravaganti). La cantante ha anche collaborato alla scrittura di alcuni di questi brani, ma non è dato sapere se dal lato musicale o da quello dei testi (ma presumiamo la seconda opzione).

sabato 5 gennaio 2019

dear diary


È strano rivedere questo film dopo un quarto di secolo. Inevitabilmente viene da pensare all’invecchiamento, obbligati dallo «splendido quarantenne» del protagonista che ineluttabilmente è diventato un sessantacinquenne un po’ meno splendido. In secondo luogo, la frammentarietà dei tre episodi, apparentemente giustapposti a caso, rivela una certa unitarietà di fondo, anche per la loro varietà di stile. Il primo episodio, e cioè la gita in Vespa per Roma & dintorni, è in effetti quello piú libero e leggero, anche per via della sua origine pensata come cortometraggio a sé stante. Viceversa, l’episodio centrale, ovvero il tour per le Isole Eolie, è quello piú articolato e sceneggiato con maggior creatività, ed è la parte veramente divertente: il punto di partenza è la presa in giro di una certa moda radical-chic della ricerca del distacco dalla massa, e sarebbe bastata quella, ma Moretti ha saputo metterci una vis comica assolutamente indovinata, degna delle migliori gag surreali di Totò. Entrambe queste due prime parti del film trattano il tema, come si è detto, dell’io e della massa, ma il regista, seppure dichiarandosi parte di «una minoranza», nel primo caso va in cerca di spazi pubblici di Roma (di secondaria importanza, sulla scia della poetica di Luigi Ghirri che un decennio prima portava alla ribalta lo sfasamento dei non-luoghi) nei quali è però costante la ricerca della presenza umana (la balera all’aperto, le singole persone fermate per strada, etc.); nel secondo, come già detto, l’autocritica verso l’elitismo è totale. Nel terzo, invece, il rapporto non è piú tra l’io e il fuori, ma l’antagonista è dentro se stessi (la malattia), e l’aiuto degli altri diventa a questo punto indispensabile, anche se quasi mai utile.

1993, scritto e diretto da Nanni Moretti, con lui e altra gente piú o meno famosa