martedì 25 dicembre 2018

Sessantotto, asino cotto



Libercolo che fa parte di una neonata collana che vorrebbe trattare argomenti relativi al mondo del fumetto per elevarne la considerazione un po’ al di sopra della spazzatura. Nella fattispecie si recuperano fumettari agé che riferiscano la loro esperienza nei dintorni degli anni del mitico Sessantotto. Tutto bene, se non che la buona Laura Scarpa, curatrice del volumetto, a quanto par di capire ha interloquito con i relatori tramite due-tre domandine uguali per tutti inviate via e-mail, alle quali sono seguite risposte quanto mai disomogenee una dall’altra. Di relativo interesse sono le testimonianze di Lunari, Elfo, Massimo Rotundo, Staino, e poco altro. Per il resto si tratta di pensierini, a volte fuoriluogo, probabilmente costretti moralmente dal credito che la Scarpa ha nei confronti di un po’ tutti per le sue attività di promotrice fumettistica su riviste di vario genere.

Comicout editore, 112 pagine, 10 euri

martedì 27 novembre 2018

Carlo Pelloni


MILANO – Palazzo Reale: “Carlo Carrà”. Il buon Carlo Pelloni, che in seguito assumerà il suo nome d’arte ispirandosi alla nota soubrette Raffaella Carrà, incominciò a pitturare tele ad inizio Novecento, e di conseguenza il suo primo approccio non poteva non essere dettato dalle avanguardie del nuovo secolo: divisionismo, futurismo, cubismo, metafisica, etc., le ha passate proprio tutte, con notevoli risultati, bisogna dire, che spesso si confondono con i migliori esiti dei piú titolati esponenti di ognuna di loro. Senonché ad un certo punto si stufa, forse anche per l’ulteriore influenza del generale ritorno all’ordine post-bellico, e si ritira in buona pace a dipingere paesaggi, marine soprattutto, e nature morte, nelle quali la sua sapienza coloristica acquisita non manca, qua e là, di dar luogo a vere e proprie poesie pittoriche (cit.). Lo straniamento metafisico delle nature morte, retaggio dell’excursus nello stile del De Chirico, non mancherà di colpire il buon Giorgio Morandi che ne farà il marchio di fabbrica delle sue [verificare la consecutio temporum stilistica, ndr].

mercoledì 17 ottobre 2018

settanta mi dà tanto


La Permanente di Milano (presieduta, scopriamo sorprendentemente, da Lele Fiano) per festeggiare il settuagenario ranger italo-texano ha organizzato, sotto la curatela del tenero Gianni Bono, una “grande” mostra celebrativa che vorrebbe rappresentare un evento memorabile nella storia cultural-fumettistica meneghina e non. Peccato che chi scrive l’abbia visitata in quasi completa solitudine pochi giorni fa, ed essendo stata lanciata alla grande, il fatto che i visitatori latitino già da ora che è appena partita non lascia ben sperare per il suo successo. Comunque, concettualmente — si fa per dire — ci si propone di raccogliere con poca visione critica e con un approccio perlopiú numerologico, tutto il ben di dio scaturito dal personaggio: dalle innumerevoli collane e ristampe, alle edizioni estere, al merchandising, etc. La mole di materiale, in originale e riprodotto per mezzo di stampe a colori etc., è effettivamente impressionante e colpisce nostalgicamente chiunque abbia condiviso una parte qualunque del lungo percorso del character bonelliano. Tuttavia, l’intento enciclopedico ha obbligato al sacrificio della parte piú interessante, ovvero le tavole originali disegnate, che quindi costringe ad esporre solo alcuni esempi dei pochi disegnatori piú celebri (in questo senso possiamo immaginare la difficoltà nel recuperare tavole storiche probabilmente in larga parte disperse in una diaspora presso collezionisti privati). Risolleva un po’ il morale un video inedito con interviste a Boselli e, soprattutto, al grande Giovanni Ticci, ma nel complesso, con il suo assetto giocondo ci pare una mostra indirizzata soprattutto al lettore medio di Tex, stagionato dagli anni, che la domenica porta il suo marmocchio a fargli conoscere uno dei suoi miti del passato (con grande noia del marmocchio, immaginiamo).

mercoledì 26 settembre 2018

love ghost


“Fantasma d’amore” è un film piuttosto inconsueto per Mastroianni: di carattere paranormale, ma purtuttavia calato nella realtà di provincia (Pavia, Sondrio). Come nella “Donna che visse due volte”, il protagonista è ossessionato da una figura femminile, ma la razionalità hitchcockiana si fa da parte per un’inquietante atmosfera di sogno e di presenza di morte, nella quale l’idea paragnostica dell’aldilà viene lasciata affiorare solo sporadicamente dalla realtà concreta e spicciola di vita quotidiana nella quale è ambientata la storia, in maniera tale da rendere ancora piú forte l’impatto con le sue epifanie nell’aldiquà. Basato sul romanzo omonimo di Mino Milani, soffre forse un po’ del non perfetto adattamento del testo allo schermo, tale da rendere alcune situazioni (poche, comunque) rasenti il comico.

1981, regia Dino Risi, sceneggiatura di Bernardino Zapponi e Dino Risi (tratto dal romanzo di Mino Milani), musiche di Riz Ortolani, con Marcello Mastroianni e Romy Schneider

giovedì 20 settembre 2018

bare-handed


La collana ‘Romanzi a fumetti’ della Bonelli, nella quale figura “Mani nude” della Barbato, risulta essere la sede quanto mai piú appropriata per venire alla luce dato che, diversamente dai volumi precedenti che compongono la serie, è tratto davvero da un romanzo letterario di una decina d’anni fa, opera peraltro della stessa autrice, che qui ha anche provveduto a ricavarne la sceneggiatura. Trattasi di una storia che si ispira in partenza al celebre “Fight Club”, ma che vira su tonalità nerissime e nichiliste, che non lasciano scampo. Purtroppo molti personaggi, tra i quali anche i protagonisti, sono solo abbozzati e perdipiú autocompiaciuti, un difetto che forse veniva ovviato nello spazio narrativo piú ampio del romanzo originale vero e proprio, ma qui nel fumetto la distanza con il lettore è decisamente troppa, e se vi aggiungiamo la tematica truculenta, il risultato finale non può che essere di repulsione.

300 pagine in b&n, 9,90 euri

mercoledì 29 agosto 2018

those are a few of her favourite things


La graphic novel dell’anno è senza dubbio questo mastodontico libro d’esordio dell’americana Emil Ferris, del tutto atipico sia nello stile, tutto disegnato a penna a sfera, sia nella storia, con riferimenti autobiografici, che racconta le peripezie di una ragazzina emarginata e del suo inquietante vicinato, ambientata negli anni Sessanta USA. Si tratta certamente di un caso interessante, per lo sforzo profuso nel costruire un sistema narrativo originale e coerente, con una trama che si spinge all’indietro nel tempo fino all’antisemitismo europeo degli anni 40 (una strizzata d’occhio a Maus?), tuttavia in fin dei conti appare come un catalogo di brutture e di degrado sociale un po’ fine a se stesso, e anche la soluzione del mistero dato dal coté noir dello spunto di partenza è ampiamente telefonato fin dall’inizio.

Bao Publishing, 416 pagine a colori, 29 euri

mercoledì 11 luglio 2018

zio tom revisited


La Bonelli rispesca il suo nome originario di Audace per battezzare una nuova collana un po’ piú per adulti rispetto alla media dei vari Tex, Zagor, etc. La prima uscita è un convincente adattamento a fumetti di Michele Masiero e Mastantuono dei romanzi di Joe Lansdale basati sul personaggio storico di Deadwood Dick e sulla sua autobiografia di ex-schiavo e poi buffalo soldier. Non è tanto la storia in sé ad essere interessante (il solito western trucido, un po’ alla Quentin Tarantino di Django), quanto quella che supponiamo essere la scrittura di Lansdale trapiantata nel fumetto, molto densa e ironica, che porta un po’ di spessore nei giornaletti da edicola, solitamente di qualità un po’ cosí cosí. Pregevole anche la trovata dello sceneggiatore, che si protrae per una dozzina delle tavole iniziali, di separare la didascalica descrizione dei fatti dal loro effettivo svolgimento disegnato, che sfrutta una potenzialità peculiare del fumetto, che in tal modo — dall’addizione semantica di testo e grafica — è in grado di generare un risultato che è maggiore della somma dei due fattori, un espediente espressivo impossibile da realizzarsi in letteratura e che nemmeno il cinema può vantare tra i suoi strumenti.

64 pagine in b&n, 3,50 euri

martedì 3 luglio 2018

the end of the reason


Una graphic novel di RR, il fumettista piú sopravvalutato (da sé stesso) del mondo. Curiosamente, nello spazio di poche settimane, sono stati pubblicati almeno un paio di libri a fumetti che mutuano dal Pompeo di Andrea Pazienza la loro realizzazione su fogli di quaderno ma, se nel primo caso in esame (ci riferiamo a La mia cosa preferita sono i mostri, del quale parleremo quanto prima) la scelta riflette la volontà di trasmettere l’urgenza — seppur simulata — della scrittura disegnata pseudo-diaristica, nel caso di Recchioni invece siamo piú nel campo della citazione estetica: difatti la presenza di Paz vi ricorre in almeno altri due frangenti: il primo è lo stile quasi pittorico adottato, che ricorda le tavole di Campofame — oltretutto, il tipo di storia, basata sull’emarginazione e la sofferenza, ne ripercorre il senso —; la seconda citazione è quella, quasi letterale, nella vignetta di uscita, della celebre poesia-grafica zen Stella, fiore, notte... I problemi fumettistici di Recchioni sono sempre gli stessi: una pretenziosità esagerata, unita ad un linguaggio espressivo che vorrebbe essere epico ma che non riesce ad andare oltre la stucchevolezza piú imbarazzante, testi autoreferenziali, dialoghi artritici, etc. Salvano la situazione in extremis un paio di trovate pseudo-geniali da pseudo-scrittore maledetto disseminate nella storia, ma non valgono la candela.

Feltrinelli, 112 pagine, 16 euri

lunedì 25 giugno 2018

another great art&craft swindle


BRESCIA – Musei di Santa Giulia: “Tiziano e la pittura del Cinquecento tra Venezia e Brescia”. Quella che veniva spacciata per una grande mostra si rivela in realtà, tanto per cambiare, una grande fregatura. La ragione scientifica (chiamiamola cosí) sarebbe stata quella di dimostrare l’influenza che l’artista di Pieve di Cadore avrebbe esercitato, nei suoi sporadici rapporti con la città di Brescia, nei confronti dei pittori locali del primo Cinquecento (in realtà si considerano solo il Moretto, il Romanino e il Savoldo). Purtroppo, prima fregatura, il principale contributo tizianesco (davvero eclatante, bisogna riconoscerlo) è costituito dalla Pala Averoldi, ospitato dalla chiesa dei Santi Nazaro e Celso, ma che lí rimane, ed è presente in mostra solo in forma virtuale — quella ormai in voga nel sistema delle mostre-evento del tipo ‘Klimt-experience’ — mediante proiezioni gigantografiche, animate e scomposte, con sottofondo musicale. Oltre a ciò, di Tiziano c’è veramente poco: quadri giovanili, o poco rilevanti, escludendo solo un bel ritratto di un tale. Aggiungiamo che anche i pittori bresciani influenzati sono rappresentati generalmente con opere minori, perlopiú di piccolo formato destinate al privato, e tranne rari casi anche di scarsa qualità. Se poi andiamo alla ricerca dei presunti caratteri stilistici infusi dal Maestro ai suoi epigoni, stante la scarsa rilevanza degli esempi portati da un lato e dall’altro, facciamo veramente fatica a capire i termini della questione, che pure senz’altro ha delle basi abbastanza fondate, e possiamo concludere che questa mostra non aveva ragion d’essere.

lunedì 4 giugno 2018

la vita l’è düra


Milano – Palazzo Reale: “Dürer e il Rinascimento, tra Germania e Italia”. Non fai in tempo ad elogiare una mostra meneghina — quella su Caravaggio, chiusa qualche mese fa — che subito dopo l’offerta culturale milanese non manca di ritornare ai (ne)fasti della sua consueta approssimazione. Il titolo dell’attuale mostra in corso a Palazzo Reale, come al solito, trae in inganno: quella che viene spacciata per una dimostrazione pubblica esaustiva delle influenze assimilate dal Dürer in seguito al suo celebre viaggio di formazione in Italia del 1505, si rivela in realtà un baccanale in larga parte incentrato sul suo lavoro di incisore: un coté di tutto rispetto, ci mancherebbe, ma che avrebbe meritato una occasione a sé stante per essere compreso appieno. Viceversa, il lavoro pittorico è rappresentato da pochi esemplari di reale importanza, e da molte opere di seconda scelta (soprattutto ritratti, o mezzibusti di santi, etc.), e anche i maestri lombardo-veneti che il norimberghese avrebbe saccheggiato sono testimoniati da opere minori (del Bellini, per esempio, o il “San Girolamo”, incompiuto, di Leonardo, buttato lí con poca creanza). Oltretutto, il filo logico che sta alla base della mostra si va via via perdendo man mano che si prosegue nel percorso espositivo, tanto che nell’ultima sala ti trovi l’anziana signora del Giorgione (“Col tempo”) e per un attimo ti chiedi cosa diavolo ci stia lì a fare.

lunedì 7 maggio 2018

bitter rice


Come da vulgata, “Riso amaro” si inscrive senza dubbio nella tendenza neorealistica del cinema italiano del dopoguerra; tuttavia è palese la sua forte ibridazione con altri generi: da primo il noir americano, che serve da filo conduttore per la trama, o lo spettacolo di rivista italiano, per il ruolo predominante affidato alla Mangano in versione vedette, o la denuncia sociale dei diritti sindacali dei lavoratori (le mondine non a libro paga in concorrenza con quelle regolari). Il cuore del film è però l’intreccio sentimentale fra i protagonisti principali che però, a causa della molteplicità di intenti della pellicola, non riesce ad andare abbastanza a fondo nei caratteri e cosí tutto rimane un po’ troppo in superficie.

1949, regia di Giuseppe De Santis, soggetto di De Santis, Carlo Lizzani e Gianni Puccini, sceneggiatura di De Santis, Lizzani, Puccini, Corrado Alvaro, Carlo Musso, Ivo Perilli, musiche di Goffredo Petrassi (!), con Silvana Mangano, Vittorio Gassman, Doris Dowling, Raf Vallone e altri

venerdì 27 aprile 2018

trisomia


L’ennesima graphic novel autobiografica. Questa volta trattasi di una giovane coppia che si ritrova con una bimba trisomica (ovvero affetta dalla sindrome di down) e tutto il libro è un percorso catartico e psicanalitico che va dal trauma alla sua elaborazione e alla sua (quasi) soluzione. L’autore pare essersi inventato fumettista per l’occasione, e in tal caso gli vanno fatti i complimenti perché la padronanza degli strumenti narrativi è encomiabile, e lo stile quasi umoristico adottato (una costante nel fumetto d’autore da una trentina d’anni in qua, anche perché chi è dotato per la scrittura difficilmente lo può essere altrettanto nel disegno) è ideale per addolcire un tema altrimenti piuttosto difficoltoso da affrontare e far digerire.

Bao Publishing, 256 pagine, 20 euri

martedì 24 aprile 2018

Mangàsia


MONZA – Villa Reale. “Mangàsia” è una mostra che, prima di approdare in quel di Monza, è stata preceduta da uno straordinario battage pubblicitario, dovuto sia alla sua precedente esposizione nella Capitale, sia ai vantati referenti internazionali del suo concept. In realtà, all’atto pratico della visita non si può non rimanere un po’ delusi nel constatare che gli standard elevati che ci si attende siano tali, nei fatti, eventualmente solo rispetto al decadente mondo del fumetto, soprattutto quello italiano. Complice infatti il percorso labirintico della sede Reale, poco adatto ad essere utilizzato come spazio espositivo, e ad un allestimento dalla qualità discontinua, ci si trova in balia della frammentarietà e di un’atmosfera da rigattiere, che sembra raccogliere sia cose ottime che paccottiglia, anche se bisogna riconoscere che le “didascalie” del materiale esposto sono sempre molto precise. È positivo invece l’intento di ecumenismo temporale e spaziale, ovverossia quello di raccogliere un sacco di roba solitamente non disponibile agli occhi italici, che consente una panoramica (a partire dagli ormai abitudinari antecedenti ottocenteschi di Hokusai e compari) che va dagli inizi del secolo scorso ai giorni nostri, e che, oltre ai notissimi manga giapponesi (con tavole di Tezuka, Taniguchi e molti altri, ma manca un gigante come Ryoichi Ikegami, a dimostrazione comunque che l’esaustività sia tutt’altro che perseguita), oltre ai manga, dicevamo, si trovano esempi di fumetti di tutta l’area asiatica, dal Pakistan all’Indonesia, che attestano le piú svariate influenze stilistiche. Soprattutto fa piacere ritrovare i fumetti delle Filippine (che per un certo periodo furono reperibili anche nelle edicole di Milano), per confermare l’impressione avuta tempo fa del fatto che quella filippina sia una vera e propria scuola a sé stante, con disegnatori dallo stile molto uniforme, mutuato dai comics americani degli anni Cinquanta, e che ha trovato modo di sdebitarsi con i suoi ascendenti tramite il celebre Ernie Chan, filippino-americano, che per anni inchiostrò (e raramente pure disegnò) le storie americane di Conan il Barbaro.

venerdì 20 aprile 2018

250 tartine


La città di Padova sta appropinquandosi all’anno 2020 per celebrare adeguatamente (come non mai, vorremmo dire) i duecentocinquantanni della dipartita di Giuseppe Tartini, celebre violinista, compositore musicale, insegnante e pure studioso, di origine istriana ma di stanza per tutta la vita nella città del Santo. Esce perciò da poco questo elegante libretto, molto sintetico e allo stesso tempo esauriente, pensato e curato molto bene (peccato per i tre o quattro refusi tipografici incontrati nella lettura), che descrive vita morte e miracoli del Tartini, dal punto di vista storico, musicale, e delle fonti letterarie e — nel poco spazio a disposizione — non manca di mettere in campo numerosi spunti ulteriori di approfondimento e di ricerca su questo compositore ancora poco studiato dai musicologi. L’esiguo numero di pagine nel quale si è voluto contenersi non ha permesso una seppur minima analisi delle note sul pentagramma, molto interessanti e difficili da praticare fin dall’Opera Prima, indagine culturale che augurabilmente troverà spazio nelle numerose occasioni che da qui a due anni consentiranno di esaurire la conoscenza del Tartini (ma quandomai).

Sergio Durante, “Tartini, Padova, l’Europa”, Sillabe Editore (Livorno), 120 pagine con molte figure, 14 euri.

lunedì 9 aprile 2018

l’isola tesaurica


Riduzione a fumetti del celeberrimo romanzo piratesco, primo volume di una collana da edicola abbinata a Smile&Songs che si prefigge di rileggere i capisaldi della letteratura riproponendoli in versione disegnata. Questo primo volume lascia prevedere il peggio: roba di ordinaria amministrazione, opera di carneadi del fumetto franco-belga, utile giusto per farsi un’idea della trama, perché naturalmente ci si perde tutto il succo della scrittura di Stevenson (che poi non ce ne sarebbe nemmeno bisogno, dato che è una storia talmente famosa da essere già assimilata di default dentro ogni abitante della società occidentale dai tre anni in su, senza neanche sapere come e perché). Sulla falsariga della recente collana similare dedicata a Hergé, alla fine è compresa una parte redazionale, piuttosto sommaria, che racconta un po’ la rava e la fava sullo scrittore e dintorni.

lunedì 12 marzo 2018

john


Il proposito di parlare di musica tramite il linguaggio del fumetto era già di per sé stesso indicativo quantomeno di una certa temerarietà, in quanto le due arti fanno capo a sistemi sensoriali differenti (l’udito, nel primo caso, e la vista, nel secondo), che nulla hanno a che fare l’uno con l’altro, motivo per il quale tutt’al piú si può cercare di essere quanto piú evocativi possibile. Inoltre, il buon Parisipaolo si cimenta col jazz, genere che già ha trovato strada fumettistica per via delle celebri storie di Muñoz e Sampayo, dedicate a Billie Holiday & company, e purtroppo il confronto con tali precedenti illustri non può che essere meno che impietoso. Aggiungiamo che il trattamento di questa graphic novel assume una connotazione estremamente didascalica. Che dire, dunque? L’unico senso di un fumetto come questo è di colmare una lacuna nella bibliografia italica di John Coltrane, il quale è inspiegabilmente assente da una qualsivoglia trattazione musicale e non (per non parlare della mitica seconda moglie Alice).
Coconino Press, 128 pagine, 17 euri