sabato 31 luglio 2021

ambasciatrice porta pena

 



Forse per noia, o forse per inconscia reazione alla nuova rigidità morale degli anni Trenta teutonici, accade che la moglie insoddisfatta di un alto papavero del Reich — sobillata in questo senso dal proprio licenzioso professore di letteratura — si senta attratta irresistibilmente dalla nipponica compagna del corso di pittura a cui si era iscritta per rianimare i propri interessi. La giappo è la figlia dell’ambasciatore, perciò la relazione sconveniente può avanzare proprio grazie alla protezione del circuito di sicurezza al quale ella è sottoposta. In realtà, la ragazza è attratta dalla qualunque, tanto che a un certo punto la relazione proibita diventa un triangolo, che acquisisce addirittura il marito della fedifraga — anche se la circostanza è nel film poco elaborata narrativamente, tanto da risultare troppo repentina e poco credibile —. L’attitudine multi-direzionale, che pone la giapponese cinicamente al vertice di potere di questa triangolazione, schiavizzandone intellettualmente le altre due parti, non comporta alcun eventuale distacco sentimentale, tanto che la fine di tutto verrà determinata proprio da una specie di harakiri collettivo, per sua volontà. Il tema che sta sullo sfondo è l’irriducibilità del sentimento umano alle regole morali ufficiali.

1985, regia di Liliana Cavani, sceneggiatura di L. Cavani e Roberta Mazzoni (tratta da “La croce buddista” di Junichiro Tanizaki), con Gudrun Landgrebe, Kevin McNally, Mio Takaki

domenica 18 luglio 2021

vedi un po'

 

Chissà: forse è proprio a causa dei suoi disturbi alla vista che l’autore del “Mondo nuovo” è diventato uno degli scrittori piú visionari, addirittura anticipando di una decina d’anni la distopia orwelliana. Nel 1942 pubblicò questa specie di manuale — ispirato alle idee del dr Bates — nel quale suggeriva una serie di esercizi per migliorare la condizione di chi soffrisse di miopia, ipermetropia, etc. Alcuni di questi esercizi, come quello che consiglia di fissare il sole ad occhi aperti, appaiono oggi altamente sconsigliabili; altri — come quello di concentrarsi sullo spazio bianco delle lettere per affinare la percezione del nero — sembrano abbastanza inutili. Piú interessanti, invece, quelli che invitano a risvegliare l’occhio sottoponendolo a differenti focalizzazioni, da vicino e da lontano, per recuperarne l’atrofia visiva. Il fatto sconcertante, comunque, è che già all’epoca qualcuno aveva capito che curare la vista con l’uso degli occhiali equivaleva a curare i sintomi, e non le cause, della cattiva visione, contribuendo perdipiú in tal modo alla progressiva degenerazione dei difetti che ci si prometteva di correggere (com’era ovvio, del resto, ma la lobby dei fabbricanti di occhiali l’ha avuta vinta).

Adelphi, Piccola Biblioteca n. 231, pagg. 220