sabato 31 luglio 2021

ambasciatrice porta pena

 



Forse per noia, o forse per inconscia reazione alla nuova rigidità morale degli anni Trenta teutonici, accade che la moglie insoddisfatta di un alto papavero del Reich — sobillata in questo senso dal proprio licenzioso professore di letteratura — si senta attratta irresistibilmente dalla nipponica compagna del corso di pittura a cui si era iscritta per rianimare i propri interessi. La giappo è la figlia dell’ambasciatore, perciò la relazione sconveniente può avanzare proprio grazie alla protezione del circuito di sicurezza al quale ella è sottoposta. In realtà, la ragazza è attratta dalla qualunque, tanto che a un certo punto la relazione proibita diventa un triangolo, che acquisisce addirittura il marito della fedifraga — anche se la circostanza è nel film poco elaborata narrativamente, tanto da risultare troppo repentina e poco credibile —. L’attitudine multi-direzionale, che pone la giapponese cinicamente al vertice di potere di questa triangolazione, schiavizzandone intellettualmente le altre due parti, non comporta alcun eventuale distacco sentimentale, tanto che la fine di tutto verrà determinata proprio da una specie di harakiri collettivo, per sua volontà. Il tema che sta sullo sfondo è l’irriducibilità del sentimento umano alle regole morali ufficiali.

1985, regia di Liliana Cavani, sceneggiatura di L. Cavani e Roberta Mazzoni (tratta da “La croce buddista” di Junichiro Tanizaki), con Gudrun Landgrebe, Kevin McNally, Mio Takaki

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