lunedì 5 aprile 2021

ohi Mari

 


Il Mari Enzo si guadagnò un posto nel pantheon personale di chi scrive già attorno al 1985, allorché durante un ciclo di conferenze pubbliche proposte dall’Istituto d’Arte di Cantú — aventi come protagonisti i maggiori designer del tempo (oltre a lui, Munari, Castiglioni, etc.) — esordí con una frase del tipo «se volete diventare dei designer, le conferenze non servono a niente, ma bisogna studiare sui libri». Questo suo carattere fatto di originalità ed intransigenza lo ritroviamo nell’autobiografia di cui sopra — pubblicata una decina d’anni or sono dalla Mondadori — dove comincia a raccontarsi a partire dalla povertà originaria della sua famiglia, ed alla serie di diversi lavori artigianali che, uniti ad un’indole artistica, nel contesto di ricostruzione del dopoguerra milanese lo portarono ad avvicinarsi all’ideazione di oggettistica industriale, trovando sovente approdo presso imprenditori illuminati che osavano rischiare su progetti fuori dal comune. La sua formazione autodidatta, basata fondamentalmente sull’essenzialità della funzione pratica dell’oggetto invece che sul suo aspetto estetico, era arricchita da una ricerca personale nei campi della filosofia, della pedagogia, etc. che, in ragione di detto percorso condotto fuori da tutti gli schemi, hanno fatto del Mari un unicum, a tratti scontroso verso il sistema costituito (in riferimento al design, ma non solo) che negli ultimi anni assieme ad un po’ di arteriosclerosi lo facevano sembrare un vecchio trombone, dal quale però si potevano sempre trarre delle scintille illuminanti.

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