Un libro scritto con intelligenza e competenza per ridimensionare un paio di miti d’oggi riguardanti la lingua italiana, ovvero se sia utile accogliere vocaboli stranieri o meno, e se veramente il maschilismo che affiora dal nostro idioma sia esclusivamente retaggio della società patriarcale. La risposta al primo quesito è affermativa, anche quando si tratta di accogliere parole la cui accezione è già rappresentata da termini italiani, ché comunque i vocaboli prestati aggiungono una connotazione diversa rispetto ai corrispondenti autoctoni. Nel secondo caso invece viene spiegato che l’utilizzo prevalente del maschile è determinato anche da un principio di economia funzionale, dato che mancando il genere neutro l’evoluzione ha conservato il maschile quale genere meno “marcato” rispetto al femminile. Detto questo, si incoraggia la declinazione in –a delle professioni, per esempio, ma si boccia risolutamente sia l’asterisco che la schwa in fine di parola, ammettendoli solo temporaneamente quale sollecitazione provocatoria a porsi delle domande sul tema.
Einaudi, 2024, 144 pagg., 13 euri
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