Il lato interessante del celebre saggio della Woolf non sta tanto nella denuncia della condizione femminile — già sviluppata fin dal secolo precedente da parte di figure eminenti quali la Wollstonecraft, Harriet Taylor o Anna Kuliscioff — quanto nell’idea di letteratura propria della scrittrice inglese che viene manifestata, la quale presuppone un affrancamento dalle preoccupazioni materiali e psicologiche legate alla propria situazione economica e sociale, il cui scopo sarebbe quello di conseguire una qualità di scrittura imparziale — che lei stessa qualifica come “androgina”, e noi aggiungeremmo “apollinea” — dall’alto della quale lo scrittore possa assumere una posa (e una prosa) che non riveli né il suo genere di appartenenza né intimi sentimenti di rivalsa verso chicchessia, che tradirebbero una non perfetta equidistanza tra egli stesso ed i fatti narrati. Qualche psicanalista potrebbe indagare se il legame tra tale ideale letterario e l’oscillazione omo-eterosessuale della Woolf fosse mono- o bidirezionale, ma noi preferiamo astenerci.
1929, Feltrinelli, trad. di L. Bacchi Wilcock e Rodolfo Wilcock, 160 pagg., 11 euri